Sassi nello stagno

Sassi nello stagno

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(di Francesco Oddo Casano) – C’è un principio ispiratore, che ha guidato Mourinho nella sua carriera fino ad oggi: “Ho i miei metodi d’allenamento, altrimenti farei un altro mestiere, ma continuo a pensare che la differenza la facciano i giocatori”.

Pratico, efficace, reale. D’altronde Capello o Sacchi non avrebbero raggiunto straordinari successi senza il grande Milan degli invincibili, così anche il visionario Pep Guardiola non sarebbe stato Guardiola senza Messi, Xavi, Iniesta, Puyol etc, e così via.

Il calcio moderno è alimentato però anche da grandi avventure sportive costruite nel tempo non solo sulle qualità individuali. Il Chelsea di Tuchel ha un gruppo storico di grandi giocatori, che faticavano prima ad esprimere le loro potenzialità e sono migliorati contestualmente ad un’idea di gioco chiara, che li ha resi più forti, portandoli sul tetto del mondo. Il Liverpool di Klopp ha giovato di inserimenti di livello assoluto (Alisson, Salah su tutti) ma nel primo triennio non ha raccolto nulla, stappando l’era dei propri successi con una lenta ma inesorabile costruzione, fondata su un’identità riconoscibile. Insomma non esiste una strada univoca per vincere o un modello assoluto da inseguire. Nel suo piccolo l’Atalanta è una realtà vincente: stabilmente in Champions League da anni, in lotta al vertice del campionato, con un bilancio sano e un monte ingaggi risicato. Ma c’è un aspetto che non va mai dimenticato: nessuna squadra al mondo, che ha scritto la storia di questo sport o che ha semplicemente vinto, è entrata in campo non sapendo cosa fare. Non è questione di qualità estetica del gioco, ma di strategia e identità.

La Roma di Mourinho ha un grande limite, che non risiede forse solo nella qualità della rosa (più o meno scadente), nelle scelte dell’allenatore, negli errori commessi sul mercato. Queste sono componenti endemiche di un progetto che fatica a riconoscersi, ma perfezionabili col tempo. La Roma di Mourinho da settimane scende in campo e guardandosi allo specchio, non vede se stessa ma la proiezione di un gruppo statico, stantio, arido calcisticamente. E’ una formazione che trasmette un senso di apatia e impotenza, che la porta a sbagliare sistematicamente l’approccio alle partite, a regalare interi tempi di gioco o a rientrare, come ieri a Reggio Emilia nella ripresa, con i motori completamente spenti.

E’ evidenziabile però una inquietante involuzione. Perchè nella prima parte di questa stagione la Roma aveva un’identità chiara, innestata sul 4-2-3-1 (ma non è un problema di moduli) o quanto meno lavorava strenuamente per definirla. Squadra compatta, aggressiva, che creava un buon numero di palle gol e ogni tanto perdeva equilibrio, sopperendo però alle sue defaillance, con uno spirito ed un entusiasmo diversi dal recente passato. Si lottava, su ogni pallone, come se fosse l’ultimo, si aggrediva con coraggio. Il momento più alto? Roma-Napoli 0-0. Una gara condotta alla pari dai giallorossi contro una formazione lanciatissima in testa alla classifica.

C’erano state già delle cadute fragorose (Verona e Derby) ma la Roma convinceva per la voglia di provare a vincere tutte le partite. Poi alcuni errori arbitrali e alcune pesanti sconfitte nei big match hanno ridimensionato lo spirito, hanno quasi appiattito quell’istinto di sopravvivenza che la squadra mostrava in ogni gara giocata. Bodo è stato il primo momento di rottura: una debacle totale simile ad una coltellata che Mourinho non ha digerito (forse ancora oggi) e che ha portato a distinguere titolari e riserve in maniera netta, con tanto di epurazioni. Lodevole allora il tentativo del lusitano di scuotere la squadra anche tatticamente. Il cambio modulo ha inciso sulle variazioni di sistema. Mkhitaryan portato al centro del campo ‘perchè è il calciatore più intelligente, che sa leggere il gioco in anticipo‘. Zaniolo accentrato per assistere Abraham. Mosse che hanno accentuato un inevitabile principio: difendere e ripartire, in verticale ma che avrebbero dovuto far emergere anche una maggior capacità di controllo delle partite. Bergamo il momento più alto, una gara praticamente perfetta, sporcata però dalle solite disattenzioni difensive, che potevano costare care. Dopo quella sfida Mourinho si è sentito nuovamente tradito. Si aspettava un salto di qualità che non è mai arrivato. Poi la terza coltellata, contro la Juve, forse quella definitiva. In totale dominio del match, la Roma si è sciolta in sette minuti. Una terza coltellata che sembra aver rassegnato anche lo Special One, cioè colui che ha costruito la sua carriera sull’impeto emotivo e sull’ambizione smodata.

La Roma di oggi è un ibrido senza nè capo nè coda. Una squadra che difende male, attacca peggio, che fatica a costruire un’azione manovrata. Un meccanismo che non trova i giusti ingranaggi e che nel riflesso delle dichiarazioni sanno quasi di resa: “Non mi piace la difesa a tre ma è la soluzione migliore per far sentire più a loro agio i giocatori”. Non è questione di moduli, ma di identità. Si può giocare a 3, a 4 o a 5, ma il piano strategico deve essere chiaro. La Roma scende in campo sapendo di non avere la forza di dominare l’incontro e affronta gli avversari in maniera inerziale. Se passa in vantaggio, si siede e spera di controllare la partita, se poi subisce prova arrembaggi confusi nel finale. Non è ancora chiaro dopo 35 partite che Roma vorrebbe Mourinho, di certo quella che stiamo vedendo è lontanissima dalle speranze e le aspettative del tecnico, che lancia sassi nello spogliatoio come in uno stagno ma ciò che essi propagano, alla luce delle mortificanti risposte del gruppo, sono solo leggere onde d’urto, fini a se stesse.